Io vs. Noi vs. Loro: una convivenza complicata

Io vs. Noi vs. Loro: una convivenza complicata

Su un’isola deserta, nel mezzo dell’oceano, ci sono un Ingegnere di Produzione, una Marketing Manager, una CFO, un HR manager, e una Responsabile di Customer Service. No, non è una versione corporate della classica barzelletta sciovinista (ci sono un italiano, un inglese, un tedesco...). Da qualche settimana i cinque sono tecnicamente naufraghi di una crociera incentive aziendale, approdati a malapena a riva su una piccola zattera di salvataggio. Si conoscono appena, ma hanno dovuto subito fare gruppo per affrontare una serie di problemi pratici (dall’organizzare la sopravvivenza immediata, alla costruzione di una semplice piroga per poter esplorare le isole vicine, che intravvedono ad occhio nudo). E mettersi al lavoro intorno al principale obiettivo strategico: progettare una spedizione più strutturata, orientata a raggiungere le terre abitate più vicine, a un migliaio di chilometri di distanza. L’inizio della convivenza è cauto, ma, in una rapida successione di fasi diverse, si forma un team coeso che, nonostante le diversità culturali e caratteriali, comincia ben presto a funzionare bene.

Ma i nostri non sono soli. Su altre quattro piccole isole dell’arcipelago si sono salvati altri altrettanti gruppi di naufraghi, che stanno affrontando le stesse difficoltà, e gli stessi progetti, nelle stesse condizioni; magari sperimentando soluzioni differenti. Quando scoprono di essere in buona compagnia (l’esplorazione ha richiesto qualche settimana) i programmi di lavoro sono ormai relativamente avanzati. Così decidono che non ha senso rinunciare a idee già abbozzate che potrebbero rivelarsi promettenti. Proseguiranno lo sviluppo dei diversi progetti in modo indipendente, ciascuno sulla propria isola, dove peraltro sono già cresciuti dei piccoli cantieri navali. Con l’intesa di aggiornarsi reciprocamente attraverso meeting settimanali, per poi finalizzare la soluzione che apparirà la migliore. Inaspettatamente, tuttavia, già durante i primi incontri si intuisce una certa reticenza nel condividere i propri progressi. è pur vero che l’azienda cui tutti appartenevano era caratterizzata da una intensa competizione interna, che sembra ora trascinarsi anche nel nuovo contesto. O forse è solo una sana emulazione? Eppure c’è dell’altro, forse una certa qual diffidenza reciproca. Nessuno sembra voler svelare i propri “segreti” agli altri gruppi, quasi come se gli ?”altri” potessero trarne vantaggio per tentare poi una propria via indipendente di fuga, liberandosi della “zavorra” dei gruppi rimanenti.

è l’equivalente di una vera e propria crisi delle relazioni internazionali. Più sono stretti i rapporti all’interno dei singoli gruppi, più diventano ostili e sospettosi quelli tra gruppi diversi. La soluzione del problema Io vs Noi, che crea gruppi così coesi dentro ciascuna isola, non garantisce – anzi sembra allontanare - quella del problema Noi vs Loro, una pax cooperativa tra le diverse comunità. Riusciranno i nostri eroi a venirne fuori? E in che modo?

No, in realtà non sono su un’isola deserta. Sono sì ingegneri, HR, ecc., ma sono alloggiati nelle comode aule di un confortevole resort, o, per male che vada, di un hotel un po’ più spartano. E, no, non sono in lotta per la sopravvivenza. Anche se prendono il compito loro assegnato (gestire un’azienda simulata, tre anni in tre giorni, notti – spesso - comprese) incredibilmente sul serio. Anche loro costruiscono relazioni di gruppo prima imbarazzate, poi conflittuali, infine solidissime e funzionali. Come i naufraghi, i diversi gruppi gestiscono aziende “virtuali” parallele, che non competono direttamente tra loro. E, tuttavia, quando si riuniscono in una sala comune per apprendere lezioni comuni attraverso una discussione collettiva dei risultati, non si mescolano omogeneamente. Siedono al tavolo raggruppati per team, e si mostrano assai restii a divulgare le proprie preziose strategie; riservando anzi a volte un atteggiamento quasi sprezzante nei confronti degli altri gruppi (che, tecnicamente, sono colleghi, non nemici).

è il palcoscenico di una business simulation.

Da trent’anni, svolgo buona parte della mia attività di formazione manageriale progettando modelli matematici con cui realizzo proprio business simulation, in cui immergo per intere giornate i partecipanti. Da trent’anni, assisto immancabilmente al susseguirsi delle classiche fasi di sviluppo del conflitto/cooperazione intra-gruppo, e delle corrispondenti fasi di competizione/collaborazione inter-gruppi, con una riproducibilità che mi sorprende ogni volta. E con un finale che regolarmente scioglie il nodo della cooperazione tra i team, prima che abbia termine la rappresentazione, come il deus ex-machina delle tragedie classiche. Come avviene il miracolo?

Ho le mie teorie, in proposito. Solo recentemente, tuttavia (mea culpa), le ho ritrovate anticipate con grande chiarezza da uno psicologo sociale fuori dal comune, che pure le enunciò molti decenni or sono.

Muzafer Sherif, nato in Turchia agli inizi del ‘900, era interessato a comprendere proprio come nasce il processo che da molteplici Io conduce a un Noi, e che poi porta il Noi a scontrarsi con un Loro. Di queste dinamiche aveva vissuto sin troppo personalmente le conseguenze, finendo arrestato per essersi opposto al nazismo negli anni ’40. E, Come possiamo facilmente immaginare, nei suoi lavori torna frequentemente il tema del conformismo, sul cui ruolo negli orrori del totalitarismo avranno molto da dire lo psicologo Stanley Milgram (gli esperimenti sull’obbedienza all’autorità) e la filosofa Hannah Arendt (“La banalità del male”).

Sherif, in una serie di esperimenti del 1936, introduceva singolarmente i soggetti in una stanza buia, dove, a qualche metro di distanza, vedevano un puntino luminoso in movimento. Ad essi veniva quindi richiesto di esprimere una stima di quanto esso si fosse spostato. Il moto, tuttavia, era solo un’illusione ottica; la luce, in realtà, era ferma. Le stime corrispondevano dunque a percezioni del tutto soggettive, e quindi differivano ampiamente da un soggetto all’altro. Quando però la prova venne ripetuta in piccoli gruppi, con le stime espresse ad alta voce, e di fronte agli altri, ci si rese conto che le persone rinunciavano facilmente …alle precedenti valutazioni idiosincratiche, e i giudizi gradualmente convergevano verso un valore condiviso: era nata, dal nulla, una norma sociale, che nello specifico riguardava la “corretta” distanza percorsa dal punto. Il fenomeno era robusto, ma presentava alcuni curiosi risvolti. Se, ad esempio, un “complice” degli sperimentatori, all’insaputa del gruppo, suggeriva con tono fermo e confidente un valore molto più alto di quelli fino ad allora proposti, la stima condivisa tendeva, senza altre ragioni apparenti, a gonfiarsi. Un interessante indizio di come, nella vita reale, piccoli gruppi, ma anche intere comunità o – a maggior ragione – social network possano convergere su convinzioni molto diverse in funzione di piccole, e a volte arbitrarie, fluttuazioni del punto di partenza. Ma c’era dell’altro.

Una volta formata una norma, Sherif rimuoveva le persone una alla volta dal gruppo, sostituendole con nuovi membri. Questi, a loro volta, tendevano a conformarsi al giudizio del gruppo, cioè alla norma esistente. Che, dunque, “attecchiva” nel gruppo, sviluppando una persistenza inattesa. In un certo senso, si assisteva all’affermarsi di una sorta di arbitraria “tradizione”, in grado di attraversare quelle che potremmo considerare l’equivalente di laboratorio delle “generazioni” della vita sociale. Sorprendente. Almeno quanto le conclusioni che siamo indotti a trarre. Se la norma sociale non è più riconducibile alle singole persone, perché i membri del gruppo sono stati completamente rimpiazzati, dove possiamo dire che la norma del gruppo risieda? L’unica risposta plausibile è che essa esiste a livello di gruppo, piuttosto che a livello di individuo.

Tutto ciò sarebbe già stato sufficiente a suscitare la mia perenne ammirazione. Ma quasi vent’anni dopo Sherif, insieme alla moglie Carolyn, concepisce e mette in opera un esperimento ancora più estremo, che sarebbe stato in seguito ricordato come il “forgotten classic” delle scienze sociali.

Questa volta, il focus è sulle dinamiche tra gruppi. Come nascono i conflitti, e come possono trovare una composizione. Un modo naturale per studiarlo sarebbe quello di osservare i conflitti nel mondo reale, e ricostruirne le origini. Ma le loro radici troppo spesso si perdono in storie troppo antiche, e troppo complesse per essere esaminate con successo e in modo univoco. Così Sherif pensò di costruirsi una personale simulazione in vitro, un esperimento in cui avrebbe creato conflitti che non esistevano, e ne avrebbe osservato l’evoluzione.

Nell’estate del ’54, Sherif invita due gruppi di ragazzini middle class di undici anni ad un campo estivo nel Robbers Cave State Park, in Oklahoma. Per la prima settimana, i due gruppi (“the Eagles” e “the Rattlers”) passano il loro tempo come in tutti i campi estivi degni di questo nome: giocando, esplorando, facendo amicizia. I gruppi, però, alloggiano in dormitori separati, e non sanno l’uno dell’esistenza dell’altro. A questo punto la notizia della presenza degli “altri” viene lasciata trapelare. Le prime reazioni sorprendono; qualcuno viene sentito comunicare ai compagni che sono arrivati i “negri”, anche se non li ha neanche mai visti (e in realtà sono tutti bianchi). Brutto segnale. Quando entrano davvero in contatto, in una gara organizzata per entrambi i gruppi, si aprono le ostilità. Ogni fazione si identifica, esaltandole, in caratteristiche contrapposte, che si è attribuite in modo del tutto accidentale (ad esempio, il gruppo dal linguaggio sboccato, e quello “educato”. Curiosa ripartizione, visto che le estrazioni dei ragazzi sono più o meno le stesse per tutti). Gli epiteti razzisti si moltiplicano. Si dipingono bandiere. Ci si rifiuta di mangiare con gli “altri”. Le Eagles, perdenti in una gara, rubano la bandiera dei Rattlers e la bruciano. I Rattlers, per vendetta, devastano la capanna degli avversari. è guerra.

Ora che ha dimostrato che un paio di settimane sono sufficienti per creare comunità in conflitto tra loro, per Sherif è arrivata la parte difficile: riuscire a farli collaborare. Si accorge presto che le leggi dell’entropia non possono essere aggirate così facilmente. Infatti, le armi che aveva immaginato di utilizzare - coinvolgere i due gruppi in situazioni non competitive (ad esempio tornare a mangiare insieme) - portano conseguenze peggiori (devastazioni della mensa). Così è costretto a ricorrere a quella che, pomposamente, viene definita la Prima legge di Zymurgy: “Una volta aperta una scatola di vermi, l'unico modo di rimetterli in scatola è usarne una più grande”. Ecco, dunque, la soluzione di Sherif: si inventa una serie di (finti) problemi che minacciano entrambi i gruppi (un tubo dell’acqua rotto), e possono essere risolti solo se affrontati in chiave cooperativa da entrambi i gruppi. Magari lasciando intendere che dietro di essi si nasconda un misterioso sabotatore che si propone di danneggiarli tutti quanti. Insomma, le due fazioni possono essere ricongiunte solo attraverso una causa sovraordinata comune, meglio se abbinata all’invenzione di un nemico comune. Naturalmente, la nostra umana disposizione a inquadrarci in una logica in-group/out-group non viene certo scalfita da un banale trucchetto da prestigiatore: viene solo spostata ad operare al piano di sopra.

Così ora so perché le mie simulazioni finiscono tutte in gloria. Verso la metà del game, tutti i gruppi (è una dinamica intrinseca del modello matematico, ma se ciò non dovesse accadere spontaneamente una manina provvidenziale può dare il suo contributo spintaneo) attraversano una profonda crisi di risultati. Senza eccezione. A questo stadio, non hanno ancora iniziato quell’apprendimento profondo che è necessario per uscire dalle secche, e che richiede che ogni gruppo moltiplichi le proprie esperienze scambiando con gli altri storie, problemi e soluzioni. Simul stabunt vel simul cadent. Apprendere insieme, o affondare insieme. Indovinate qual è la soluzione preferita di una classe che ha già speso energie e ore di sonno in un compito così impegnativo. Et voilà: l’in-group si espande fino ad assorbire tutti i team. E l’out-group? Per questa volta, il “nemico comune” sarà il CEO che, in chiusura di workshop, farà le pulci ai loro risultati di gestione.

La magia è?compiuta.

Fornara Stefano

Head of People Development, Rewarding, Education & Change – HR & Organisation

3 年

Ciao Augusto, mi hai portato piacevolemente indietro nel tempo, quando in psicologia sociale studiavo Sherif, Tajfel e Lewin e loro interessanti teorie, che come hai saputo ben sintetizzare, risultano sempre attuali anche ai giorni nostri e ci aiutano a riflettere su quanto gli essere umani sono semplici nella loro complessità. Quando passi da Maggiora fatti sentire, che mi fa piacere rivederti...a presto...Stefano

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Antonio MELONE

Avvocato - "of counsel" Studio Pessi e Associati - HR Senior Advisor - Mentore

3 年

Grazie Augusto Spero che ci si possa rivedere presto Se poi ci fosse anche Giulio Sapelli sarebbe come tornare indietro di un lustro ??????

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Tarcisio Mazza

Head of End Users

3 年

Complimenti Augusto, analisi molto centrata. Peraltro come ricordi ho avuto il piacere di partecipare ad un tuo workshop e l’ho trovato molto ben fatto. Una domanda: cosa succede al “realista” che si accorge che il puntino non si sposta? In altri termini, qual è la differenza (sottile) fra l’essere l’anarchico che non si allinea al mainstream o diventare il leader che indica la soluzione?

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